Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

martedì 6 marzo 2018

Cannibale



Dario era un cannibale. 
Non sapeva e non ricordava bene in che occasione, e neanche quando, aveva assaggiato il primo boccone di un suo simile, ma la cosa non lo turbava affatto. Quel drastico e repentino cambiamento di regime alimentare non era mai stato un grosso problema per lui, neanche quella prima volta di cui non rammentava con precisione i dettagli. Il fatto era che la carne umana gli piaceva più di ogni altra cosa e da tempo, da tanto tempo ormai, non poteva più farne a meno.
Eppure avrebbe avuto la possibilità di ottenere ogni tipo di prelibatezza e leccornia tradizionale con mezzi leciti e senza fatica. I soldi non gli mancavano e una dispensa capiente neppure. Ma quello, il cibo comune per i suoi simili, lo riservava appunto a loro, ai suoi simili, quando aveva ospiti in casa. Le sue papille gustative lo rifiutavano. Il suo stomaco si contraeva in dolorosi spasmi solo ad immaginarne l’odore o il sapore. Se solo avesse provato a mandare giù anche un solo boccone avrebbe vomitato per giorni. Non aveva dubbi. Perciò lo evitava accuratamente. 
Ogni qualvolta era seduto a tavola con amici o parenti, in qualsiasi occasione, in casa o fuori in un ristorante o in una pizzeria, s’inventava le scuse più fantasiose pur di non ingurgitare quella roba immonda, ma non disdegnava un buon bicchiere di vino per distrarre i commensali. Quando le circostanze lo obbligavano in qualche modo a ordinare qualcosa era diventato abilissimo nell’occultare il cibo e nel farlo sparire nei luoghi più impensabili. I vasi di fiori, ma anche qualche busta nascosta sotto la giacca o una sedia vicina, erano i suoi migliori alleati. Non si lamentavano. Non fiatavano.
Per il resto aveva dei gusti raffinati in merito alla sua passione culinaria: i maschi li preferiva ben cotti e accompagnati da condimenti forti, decisi e speziati, le femmine le prediligeva al sangue, con una cottura rapida e delicata e un condimento leggero e poco invasivo. 
Aveva affinato la sua tecnica ai fornelli con anni di esperienza, dopo tante prove ed esperimenti. D’altronde non si trovavano in giro molti manuali di cucina che si occupavano della sua pietanza prediletta. Indi doveva improvvisare e provare sino a trovare il giusto equilibrio di sapori, il giusto tempo di cottura dei vari tagli di carne. Col tempo aveva appurato che la carne giovane era molto più gustosa e digeribile, ma certe vecchiette facevano comunque un buon brodo; l’ideale quando non si sentiva troppo in forma o era afflitto da qualche malanno stagionale.
L’unico vero problema era costituito dalla difficoltà di recuperare la materia prima. Di certo non la poteva trovare nei banchi frigo dei market né tantomeno in macelleria. Tempo addietro provò anche a fare una ricerca su internet ma, oltre a pillole per ipotetiche erezioni sensazionali e fregature di ogni genere, non trovò mai nulla che facesse al caso.
Un’altra opzione non troppo complicata poteva essere il vicino cimitero. Provò anche quella. Tuttavia l’unico risultato che ottenne fu una gastroenterite memorabile e giorni interi di vomito e diarrea. Nelle interminabili sedute al cesso, in preda a crampi atroci, arrivò alla conclusione che la carne, se non adeguatamente conservata, oltre a non aver un buon sapore, poteva riservare anche altre spiacevoli sorprese. Perciò accantonò subito la facile strada del necrofago. La carne in decomposizione non si addiceva ai gusti raffinati del suo palato fino e tantomeno al suo delicato apparato digerente. L’unica soluzione per ottenere risultati ottimali in cucina era quella di procacciarsi carne fresca e possibilmente non contaminata da agenti infettivi o patologie importanti che potevano alterarne il sapore, sia a causa del male in sé, sia per effetto dell’assunzione di farmaci. Il cibo doveva essere sano, genuino e possibilmente giovane. 
Un corpo, adeguatamente lavato e sezionato, suddiviso in mono porzioni sigillate negli appositi sacchetti, poteva bastargli anche per un mese. Il problema era solo trovarlo e trovare anche il coraggio di ucciderlo, quel corpo. Non era affatto semplice. Dario era un cannibale, non un criminale.
Una volta ebbe la fortuna di trovare alcuni corpi freschi dopo un incidente automobilistico in una strada periferica poco trafficata. In qualche altra circostanza si rivolse a un professionista prezzolato che gli recuperò un paio di corpi. Ma non poteva essere questa la soluzione più sicura né tantomeno quella più economica. In casi del genere meno persone sanno e meglio è.
Doveva fare da sé. Non aveva alternative.
Allora si mise a cacciare i suoi piatti. Inizialmente provò a pescare qualche giovane femmina, perché erano più gustose e, in teoria, meno forti in caso di colluttazioni. Ma al contempo erano anche più difficili da uccidere soprattutto quelle più giovani e belle, perché la coscienza di Dario si opponeva al volere dello stomaco. A lui piacevano le belle donne e trovava che fosse un vero peccato sprecarne qualcuna in uno spezzatino, se non giusto in qualche occasione particolare. Una ricorrenza speciale o una festa, una delle tante sparse nel calendario.
A quel punto decise di cacciare quelle più bruttine, non troppo grasse però per via del colesterolo. Era un salutista e poi non voleva perdere tutta la giornata a separare il tessuto muscolare dall’adipe. Poteva essere un’operazione troppo lunga e laboriosa e inoltre il risultato ai fornelli non era per niente scontato. L’eccesso di tessuto grasso poteva alterare il gusto del cibo e rovinare le sue ricette.
L’altra soluzione era andare a caccia di maschi. Però ci teneva alla sua reputazione e non voleva che nessuno fraintendesse le sue intenzioni. Non avrebbe gradito affatto che qualcuno potesse insinuare qualcosa in merito alle sue preferenze sessuali. Quindi decise che la carne di maschio sarebbe stata solo l’ultima delle soluzioni, giusto in caso di impossibilità di trovare cibo femminile in tempi e modi accettabili.
Un giorno di fine gennaio si trovò in mezzo a un mare di feci. Il piatto era vuoto. La padella era vuota. Il frigo era vuoto. Il freezer invece era proprio una distesa candida degna di una pianura antartica. Un deserto di ghiaccio. La stessa cosa si poteva affermare del suo stomaco, con l’unica differenza che lì qualcosa c’era e si muoveva, e la temperatura era decisamente più alta. Ma anche nel suo apparato digerente c’era il deserto. Aveva un continuo turbinio di succhi gastrici che si muovevano su e giù come onde corrosive di un mare in tempesta, leggermente diverso da quello succitato ma ugualmente fastidioso.
Si preparò per la caccia. Coltello nella tasca destra e boccetta di cloroformio, fazzoletto e guanti in quella sinistra. Le mani gli tremavano ma non di certo per la paura o l’emozione. Era fame.
Si sentiva un lupo feroce dentro il corpo di un vecchio con il morbo di Parkinson. A differenza degli altri lupi non poteva contare sul lavoro di squadra di un branco. A differenza di un vecchio con il morbo di Parkinson non poteva contare sull’aiuto di una qualche medicina. Era fondamentale il silenzio. Nessuno doveva sapere. Nessuno doveva sospettare.
Infilò i guanti. Doveva essere pronto.
S’incamminò lungo i viali della periferia, dove non c’era troppa gente per le strade e quasi tutti si facevano i cazzi propri. Si correvano meno rischi anche se le ipotetiche prede non sempre erano di buona qualità.
Stavano calando le prime ombre della sera e con esse anche la prima onda di prostitute da discount. Tanti corpi in offerta a prezzi modici che, però, non facevano per lui. Dario era un cannibale. Non uno stolto.
L’usato garantito o no non gli era mai piaciuto. Sia che si trattasse del soddisfacimento del proprio palato, sia per quanto riguarda altri tipi di necessità fisiologiche.
Deviò il percorso verso altre zone. Attraversò un ponte. Sempre con il coltello ben stretto dentro la tasca, il bavero della giacca sollevato e il passo deciso. 
Dal fiume saliva l’umidità e con il progredire delle tenebre l’aria si velò a causa di una nebbiolina sottile. Mentre stava iniziando a perdere le speranze udì in lontananza il vociare di un gruppo di ragazze. Ridevano e scherzavano a voce alta, spensierate e ignare della presenza del cacciatore nei paraggi.
Dario si fermò. Si guardò intorno per verificare la presenza di occhi indiscreti e attese il loro passaggio al riparo di un grosso platano.
Si lasciò sorpassare e analizzò gli ingredienti del gruppetto. Erano in quattro, giovanissime e ben vestite. Probabilmente stavano rientrando a casa reduci di qualche festa o ricevimento. Oppure alla festa ci stavano andando. In quest’ultimo caso non aveva grandi speranze. Viceversa, se i quattro filetti stavano per chiudere la loro serata gli restava qualche possibilità di condirne qualcuna, una volta separate.
Lasciò un po’ di strada tra loro e il suo appetito. Dopodiché s’incammino lentamente con fare indifferente e passo leggero come la brezza.
Il buio, gli abiti scuri, e qualche rara autovettura che sfrecciava nel viale erano suoi complici. Nessuno poteva notarlo. Nessuno poteva udire i suoi passi.
Le quattro gallinelle destinate alla sua pentola erano avanti di qualche decina di metri. L’occhio del lupo le studiò attentamente, con la velocità che l’urgenza richiedeva. Due, una bionda e una mora, erano troppo belle per finire in pentola. E lui era obiettore di coscienza. La terza era un concentrato di colesterolo e trigliceridi, troppo grassa per il suo fegato. La quarta, invece, aveva tutti i requisiti per un buon arrosto. Era la più minuta del gruppo, esile e apparentemente bruttina, faticava a tenere il passo delle sue amiche a causa delle gambette storte che dovevano muoversi sopra degli improbabili trampoli ai quali, evidentemente, non era abituata. I suoi grandi occhiali brillavano dei riflessi delle luci della notte. I suoi lunghi capelli neri danzavano nelle brezza.
Come ogni lupo che si rispetti, Dario aveva scelto la sua preda in una frazione di secondo. Doveva solo seguirla in silenzio e sperare che prima o poi si separasse dal resto del gruppo.
La gazzella più piccola e debole era incurante della minaccia e continuava a ridere e scherzare con una vocina stridula, leggermente irritante.
Il cannibale scivolò come un’ombra tra le ombre. Ora la mano era ferma. Il respiro calmo e regolare. I battiti lenti come quelli di un atleta prima della corsa. 
Le voci delle ragazze rimbombavano nella via sempre più deserta, avvolta dalla nebbia crescente.
A un certo punto il piccolo gregge di gazzelle si fermò. Chiacchierarono un po’ nei pressi di un incrocio. Dopodiché il colesterolo lasciò il gruppo.
Al lupo salì l’acquolina in bocca. Ci aveva visto giusto. Le ragazze stavano rientrando.
Il suo stomaco ringraziò con un ululato che a momenti poteva essere udito dal branco di leccornie. Dario si ritirò un momento dietro un provvidenziale cartello pubblicitario e riordinò le idee, e i succhi gastrici. Uscì dal nascondiglio quando lo stomaco si calmò e il suo cibo si rimise in moto nella nebbia, accompagnato dal solito vociare spensierato.
Il cacciatore le seguì con passo felpato e i sensi affilati. Strisciava nella notte con crescente sicurezza. Sempre più invisibile. Sempre più leggero.
Dopo alcune centinaia di metri le tre fanciulle si fermarono di nuovo, stavolta vicino all’ingresso un palazzo. La sua preda si sedette sui gradini della piccola scalinata che conduceva all’ingresso. Le altre rimasero in piedi.
Per un attimo il cuore di Dario si fermò. Se la ragazza era giunta a destinazione per lui svaniva definitivamente la cena. Non poteva cibarsi delle altre due. La sua coscienza non glielo avrebbe permesso.
Rimasero tutte e tre lì a scambiarsi messaggini e chissà cos’altro con i telefoni e a parlare, parlare, parlare.
I bagliori degli schermi dei telefonini si riflettevano sui loro volti truccati.  Le labbra luccicanti non si chiudevano mai. Dario, approfittando della distrazione e della nebbia, si avvicinò per cogliere qualche parola, qualche segnale.
La sua preda si liberò dei trampoli e li lasciò ciondolare tra le dita smaltate di una mano, mentre con l’altra armeggiava sullo smartphone e i piedi, avvolti di solo nylon, soggiornavano sul granito dei gradini, incuranti di freddo e umidità.
Dario attese. Il suo stomaco attese. 
I suoni dei telefoni arrivavano ai suoi timpani, fastidiosi come punture di spilli. E pareva non finissero mai.
Il lupo si stava masticando i denti. Lo stomaco stava riprendendo il potere. E il freddo dilagava libero e crudele.
Le tre stronze, invece, ignoravano completamente sia il gelo sospinto dal vento, sia il lupo sospinto dalla fame.
Dopo un’attesa interminabile, fatta di sospiri e imprecazioni, finalmente lo stomaco poteva rientrare nei ranghi. La preda si rimise sui dieci centimetri di protesi laccata e i telefoni rientrarono nelle loro tane, appese alle spalle delle ragazze. La bionda condusse le sue natiche su per gli scalini, e s’infilò nel portone del palazzo dopo aver salutato le due amiche.
Lo stomaco di Dario esultò con la potenza e il vigore di un’intera curva colma di ultras. Dario temette di essere scoperto e si appiattì dietro un angolo. Non infilò il coltello nel suo stomaco solo perché non ne ebbe il tempo, altrimenti era talmente incazzato con quel suo inquilino molesto che lo avrebbe fatto senza pensarci due volte.
Le due pollastrelle rimaste si erano già messe in moto e il cuoco doveva seguire i suoi ingredienti sfuggenti. Senza perdere un solo attimo.
Strisciò nella nebbia sempre più vicino alle due ragazze. Senza un rumore. Senza respirare. 
Ogni tanto le due fettine coi tacchi si fermavano a blaterare, rimarcando eventi assolutamente frivoli e inutili. Se non altro dal punto di vista del lupo.
Il predatore era pronto all’attacco, gli artigli erano pronti, i canini pure. Mancava giusto il companatico, ma era questione di pochi minuti, ormai.

Finalmente la più bella del gruppo lasciò sola la sua preda in mezzo alla nebbia sempre più fitta e impenetrabile. 
Dario la seguiva solo con l’olfatto, ormai non si vedeva quasi più niente. I lampioni con la loro luce fioca e giallastra non riuscivano ad avere la meglio sulle particelle d’acqua che saturavano l’aria. La luce ovattata sfumava prima di raggiungere il suolo. C’erano tutti i presupposti per concludere al meglio la battuta di caccia.
Dario seguì con lo sguardo le lunghe gambe della ragazza mora che si allontanava, con la scia luminosa del suo cellulare che aveva nella mano destra lungo un fianco. Quando i suoi tacchi misero qualche decina di metri di distanza dal piccolo di gnu con gli occhiali, il predatore balzò verso la sua preda con passo spedito e la bocca invasa dalla scialorrea. 
La piccola con gli occhiali e i suoi improbabili trampoli proseguiva ignara nella sua strada scarsamente segnalata dai lampioni mosci. Ancheggiava goffamente per cercare di stare in equilibrio. Ora che era sola appariva ancora più esile e minuta. Un gioco da ragazzi per il cannibale.
Dieci metri.
Il cuore di Dario iniziava a salire di giri. La macchina arrivò presto a pieno regime. Definitivamente pronta per lo scatto finale.
Otto metri.
La ragazza non si era accorta di essere seguita. I passi di Dario erano decisi ma leggeri come piume.
Sei metri.
Poteva sentirne il profumo. La mano era serrata sul coltello.
Cinque metri.
Ne percepiva il respiro, leggero e rilassato. Così vicino si rese conto che la sua pietanza non era poi così brutta come le era sembrata in un primo momento. Ma ormai era troppo tardi. Aveva raggiunto il punto di non ritorno. E aveva fame.
Quattro metri.
Bagnò il fazzoletto col narcotico con un gesto fulmineo ed esperto della mano sinistra.
Tre metri.
L’avrebbe potuta toccare se solo avesse voluto allungare la mano. La ragazza gli arrivava a malapena al petto. Nessun pericolo. Nessuna possibilità di reazione.
Due metri.
Il coltello uscì dalla tasca con un bagliore fulmineo. La sentiva canticchiare sotto voce. Un’occhiata veloce alle spalle. Una a destra. Una a sinistra. Non c’era nessun’altra anima fin dove la vista poteva arrivare. Tutt’intorno solo nebbia, ovvero l’alleato migliore per sferrare il colpo finale.
Estrasse il fazzoletto imbevuto, si lanciò con i muscoli tesi allo spasimo e allungò la mano per chiudere la bocca al cucciolo di gnu, ma nello stesso istante un tacco della preda s’incastrò in un qualche buco del marciapiede. La ragazza si piegò da un lato per non cadere e Dario anziché la sua bocca trovò il vuoto. Lo slancio gli fece perdere l’equilibrio e lui, con il coltello in una mano e il fazzoletto nell’altra, volò sul marciapiede senza trovare il corpo che aveva davanti solo un attimo prima.
Il tonfo fece voltare la ragazza che nel frattempo aveva riacquistato la stabilità e si massaggiava la caviglia dolorante.
Per terra c’era un uomo vestito di nero. Non emetteva alcun suono. Lei si piegò verso quel corpo, spezzando definitivamente il tacco della scarpa destra. Provò a destarlo con uno scossone. Provò a parlargli. Gli urlò nell’orecchio. Ma niente, il corpo non le rispondeva. Gli tastò il battito nella carotide come aveva visto fare in qualche film, ma non percepì nulla. Quindi, con un grande sforzo, ansimando e imprecando, girò il corpo pesante il doppio di lei, e un urlo lacerò l’oscurità. Gli occhiali le volarono in terra. Li recuperò tastando a tentoni il marciapiede. Se li rimise sul naso.
La mano destra di quel corpo stringeva un coltello infilato sino al manico nel bel mezzo del petto.
L’ex preda prese il suo telefono e con mani e voce tremolanti chiamò la polizia.


Dario e il suo stomaco vuoto anche questa volta avevano saltato la cena.

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